di Saverio Vasta
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Divertita e spazientita, orgogliosa e a tratti annoiata, Alda Merini si è concessa martedì scorso alla curiosità di giornalisti, docenti, studenti ed estimatori in occasione della giornata dedicatale dall’Università degli Studi di Messina che le ha conferito la laurea magistrale honoris causa in “Teorie della comunicazione e dei linguaggi”, corso di laurea della Facoltà di Scienze della Formazione. Dopo la cerimonia della mattina, in cui è stata insignita dello stesso titolo Maria Criscuolo, imprenditrice nel settore della comunicazione, la Merini è tornata all’Università nel pomeriggio, questa volta nell’aula magna del Rettorato, dove si è svolto un incontro-intervista con il prof. Andrea Velardi, arricchito della preziosa partecipazione dei fratelli Mancuso, che hanno interpretato in musica alcune poesie della Merini (Timor di tua morte, La rosa del bel canto, Abbi pietà di me).
La poetessa, che ha appena dato alle stampe il suo nuovo libro
“Francesco. Canto di una creatura” (Frassinelli, 2007), ha scherzato con il suo interlocutore, reo di averla condotta fino a Messina, mentre alcuni amici, tra cui Vincenzo Mollica (a cui ha detto prima di partire «saresti stato il muro migliore per difendermi dal mito»), l’avevano sconsigliata di affrontare il viaggio suggerendole di chiedere che la pergamena le venisse recapitata a casa. «Per una che ha vissuto quindici anni in manicomio e da quattro anni non lascia la propria casa, pensate cosa significhi prendere l’aereo due volte in un giorno: vuol dire rischiare la vita» ha detto tra il serio e il faceto la Merini al numeroso pubblico. La lunga vicenda del manicomio ritorna inevitabilmente più di una volta nella vivace e colorita conversazione con Velardi. «Spogliata della penna, della carta, del pianoforte, senza poter fare l’amore: si vive in una condizione così innaturale che non si riesce neppure a ribellarsi. Ora dicono: la Merini scrive sui muri. Certo,
ho imparato a scrivere sui muri. E ho stabilito un dialogo con il divino». Circondata da grande affetto e attenzioni, la Merini non dimentica gli anni bui, «quando non ero nessuno, e nessuno mi prendeva e mi riaccompagnava come accade in questi giorni perché vivevo nella totale indifferenza». Ironizza con quanti hanno legato a doppio filo poesia e malattia. «Non è ciò che è logico, ciò che è lineare a spronare la conoscenza.
Sono le cose illogiche, irrazionali che spingono a cercare a fondo ciò che vorremmo sapere. Così è per la poesia». Racconta, la Merini, ma non ha voglia di tirare fuori tutto quello che le appartiene: i ricordi belli, quelli brutti, le ferite profonde inflitte alla sua anima dalle «torture» insensate dell’internamento. «Noi anziani, ridotti come siamo a posacenere di ricordi, siamo a volte circondati dalla curiosità e dall’attenzione di tanti giovani.
Ma il poeta non vuole farsi vedere fino in fondo, nasconde magari alcune cose belle del passato perché ne è geloso o comunque perchè non ha voglia di raccontarle». La Merini ricorda la sua amicizia con Maurizio Costanzo: «mi ha riabilitato al rango di “signora” dal numero fisso a cui ero abituata in manicomio; mi ha circondato di affetto e di delicatezze. Mi ha dato una inevitabile notorietà, senza forzarmi e senza usarmi». La tv di oggi fa paura («Liberateci da Maria De Filippi e dalla televisione che non fa che esibire i sentimenti») ma il poeta non deve temerla: «Non è dalla tv che si impara la poesia, e la poesia non si può copiare». Dalle curiosità legate ad alcune poesie (“Il gobbo” è ispirata a un personaggio che la Merini vedeva passare un po’ incurvato e goffo ogni mattina davanti casa e che soltanto in seguito ha scoperto essere il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia…), si passa al ricordo dei suoi uomini e dei suoi amori. L’amore tenero e onesto di quindicenne per «il genio, la grazia, la bruttezza di Manganelli» e la moralità di quest’ultimo, che pure era sposato. Un amore impossibile e incompreso eppure assai fervido, fonte per entrambi di grande ispirazione poetica eppure destinato a «finire in una follia di dolore». Un amore che «fece spavento alla società benpensante e al mondo letterario, narcisista e pieno di bassezze; e così spezzarono due vite spirituali». Del primo marito, Ettore Carniti, che la fece rinchiudere in matrimonio dice «per me è sacro: mi ha dato quattro splendidi figli». Di Quasimodo, che la inserì nella sua antologia di poeti, la Merini ricorda il corteggiamento e il grande insegnamento.
L’origine della poesia resta per la Merini ignota e misteriosa: «sono intuizioni, aneliti che il poeta non sa spiegare. Certo, l’ambiente familiare può far sì che queste doti si coltivino e non si perdano. Io ho avuto una splendida famiglia, molto serena. E questo è molto importante». Per comprendere come una ragazzina quindicenne, respinta in italiano a scuola, scriveva per l’adulto Manganelli alcuni tra i suoi versi più belli e «scandalosi».
22 ottobre 2007
I miei complimenti a Saverio Vasta che ha riportato benissimo quanto vissuto nell'Aula Magna della nostra Università in compagnia della Merini.....Flavia Vizzari - http://artevizzari.altervista.org