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della pittrice Flavia VIZZARI



 
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Giacomo Manzoni di Chiosca

Ultimo Aggiornamento: 13/10/2007 08:14
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... e le sue favole
Dal libro, L’IPPOPOTAMO E ALTRI ANIMALI

FAVOLE PER TUTTE LE ETÀ




SOMMARIO



IL TRICHECO 3
IL COCCODRILLO 15
L' IPPOPOTAMO 22
LA GIRAFFA 34
IL RINOCERONTE 51
IL GALLETTO BRONTOLONE 55
L'ORSO 62



IL TRICHECO

Un giorno un tricheco, in viaggio d'affari, si trovò a passare per Monaco di Baviera proprio quando si celebrava la festa di Ottobre.
Trascinato dalla calda ospitalità dei bavaresi, si confuse nella folla inondata di birra e di salsicce e, al braccio di una bionda massiccia quanto lui, si abbandonò alle danze più sfrenate.
Così, tra birra e canti, forse oppressi dal caldo, forse suggestionati dall'ambiente, il tricheco e la sua amica, rapiti da improvviso impulso di amore e di follia, decisero di partire per l'Alaska.
Si recarono quindi immediatamente alla stazione e salirono sul primo treno in partenza.
Era sera e il buio, la birra, la stanchezza e il monotono dondolio del treno fecero il loro effetto: i due si addormentarono in pochi minuti, tra sogni dolcissimi ed eterei e sobbalzi dovuti a difficoltà di digestione.

Si risvegliarono di prima mattina. Il vagone su cui erano saliti la sera precedente si trovava parcheggiato nel binario morto della stazione di Rosenheim.
La prosperosa signora bavarese, smaltiti i fumi dell'alcol, trovandosi accanto quel grosso bestione baffuto, fu presa da grande spavento; fuggì via precipitosamente, e di lei non avremo più nessuna notizia.
Il tricheco, svegliatosi poco dopo, si trovò così, solo e senza soldi, ospite di un paese straniero e sconosciuto.
Si aggirava sconsolato per le strade della città senza sapere cosa fare, quando, alzando la testa, si accorse di essere in via Gutenberg.
Come tutti sanno Gutenberg fu l'inventore della stampa a caratteri mobili.
Così il tricheco pensava tra sé: “Potrei mettermi anch'io a stampare libri. Tutti leggono, al giorno d'oggi, non importa cosa. Se poi mi riuscisse di stampare dei libri belli, sarebbe una gran consolazione, con tutte le porcherie che circolano per le librerie!”
Così decise di cercare una tipografia.
Consultò l'elenco del telefono e, tra le tante, scelse la premiata tipografia Füssdertal che, purtroppo, si trovava dalla parte opposta della città.
Il tricheco camminò a lungo. Il sole, autunnale ma ancora vigoroso, dopo aver sciolto le brume del mattino, aveva acceso il cielo di un azzurro limpidissimo. Vermiglie cascate di gerani ancora in piena fioritura pendevano dai balconi e dalle finestre sulle candide facciate delle belle case bavaresi. C'era un'allegria, un senso di gioia nell'aria, che faceva contrasto con il malumore del nostro tricheco, già stanco, deluso, squattrinato e affamato. Per di più aveva anche il mal di testa.
Giunse alla tipografia a mezzogiorno preciso. Gli impiegati stavano uscendo e il tricheco si rivolse deciso a quello che aveva l'aspetto più importante e gli chiese del titolare.
“Il Signor Füssdertal? E' in riunione e non si può disturbarlo; comunque, se mi dice l'argomento della visita, posso fissarle un appuntamento.”
Il tricheco spiegò che voleva entrare in società con il Signor Füssdertal per stampare buoni libri, perché, con tanti libri che si vedono in giro, di veramente buoni, che meritano di essere letti, ce ne sono piuttosto pochi.
Così parlando il tricheco si infervorava nel suo discorso; ma l'impiegato, che era atteso a casa per il pranzo e non aveva tempo da perdere con quel baffuto sconosciuto dalle lunghe zanne, si convinse che il Signor Füssdertal, per una volta, poteva essere anche disturbato durante la riunione, introdusse il tricheco nel salottino d'attesa di fronte all'ufficio della presidenza e se ne andò.

Il tricheco attese per oltre un'ora.
Se ne stava lì, in una poltrona non troppo comoda a guardare il soffitto a losanghe, il lampadario di acciaio e cristallo, il tavolino di marmo nero con alcune riviste.
Una era una rivista di cucina e il tricheco, che non aveva ancora fatto colazione, si sentiva l'acquolina in bocca osservando gli elaborati piatti fotografati e descritti con tanta precisione che sembrava veramente di sentirne l'appetitosa fragranza.
Finalmente una segretaria biondissima, occhialuta e allampanata lo invitò a seguirla nell'ufficio del presidente.
Il Signor Füssdertal sembrava piuttosto contrariato dal fatto che un tizio assolutamente sconosciuto venisse ad importunarlo proprio mentre si accingeva ad uscire per il pranzo. Fin dalle prime battute si rese conto che il discorso sarebbe stato lungo e, per limitare le perdite di tempo senza voler sembrare scortese, invitò il tricheco ad andare a pranzo con lui.
Così, strada facendo e poi seduti al tavolo di un piccolo ristorante, elegante ma austero, il tricheco espose con ricchezza di particolari la sua profonda teoria sui libri belli e sui libri brutti, sui libri volgari e quelli raffinati. Sul modo di distinguere tra gli argomenti, per scegliere non tanto quelli di più facile successo, ma piuttosto ciò che ha un vero valore di arricchimento culturale e spirituale.
Il Signor Füssdertal ascoltava distratto. Al dessert interruppe il lungo sproloquio con una domanda un po' brusca: “Scusi, ma dove vuole arrivare? Cosa desidera concretamente da me?”
Il tricheco ammutolì: quell'avverbio messo lì con spontanea noncuranza lo metteva in imbarazzo. Lui voleva stampare buoni libri: il "concretamente" non era di sua competenza.
Il Signor Füssdertal non capiva l’improvviso silenzio del tricheco e, per non perdere tempo, fece questa semplice proposta: “Senta, mi porti il suo manoscritto ed io mi impegno a leggerlo di persona. Non dubiti, sarà valorizzato come merita.” Poi, alzatosi da tavola, si avviò di buon passo verso l'ufficio.
Il tricheco lo seguiva taciturno: scrivere libri, lui? Non ci aveva mai pensato, e non sapeva proprio da dove avrebbe potuto incominciare.
Cercò di spiegare al Signor Füssdertal che la sua idea era un'altra, ma questi, giunto sull'uscio della sua fabbrica, lo congedò con un saluto cordiale, ma non troppo.

“Per scrivere libri ci vuole ispirazione”, pensava il tricheco, “e qui, come mi ispiro, solo, senza soldi, a Rosenheim?”
Il tricheco pensava alla prosperosa tedesca di Monaco, e al breve sogno di fuggire in Alaska con lei. Pensava che se avesse potuto andare lontano, vedere posti nuovi, vivere affascinanti esperienze, fare conoscenza con persone importanti, parlare con gente diversa, studiare i sentimenti profondi che muovono la psiche umana; se avesse potuto, insomma, amare, viaggiare e divertirsi, avrebbe avuto argomenti per un libro, o almeno per un breve racconto. Ma intanto si trovava per strada con le tasche vuote.

Il pomeriggio era trascorso tra pensieri e meditazioni. Il tricheco aveva vagabondato per la città, soffermandosi sulle panchine dei giardini, senza nessuna meta, ed ora si ritrovava nei pressi della stazione da dove aveva iniziato la sua deludente giornata.
Incominciava ad imbrunire ed il tricheco entrò nella stazione, per cercare un angolo dove passare la notte nelle sale d'aspetto o su qualche vagone in sosta.
Passando lungo i tavoli del ristorante si sentì apostrofare: “Ehi, cameriere!” Un distinto signore con giacca e cravatta, accompagnato da una graziosa giovane bionda e imbellettata, lo chiamava con insistenza. Lui avrebbe voluto tirare dritto per la sua strada ma, per istinto, si fermò, raccolse un tovagliolo e un blocco notes sul tavolo più vicino, registrò le ordinazioni dei due viaggiatori, ed entrò nel retro del ristorante.

Era un'ora di punta. L'orario ferroviario concedeva giusto il tempo di una rapida cenetta per i viaggiatori che dovevano cambiare treno.
Tutti avevano fretta e nelle cucine del ristorante nessuno lo guardò in faccia. Qualcuno prese il foglietto delle ordinazioni e gli consegnò un vassoio ricolmo, intimando: “Tavolo dieci!”
Il tricheco iniziò a far la spola fra cucina e tavoli. La cosa gli veniva spontanea; si sentiva portato per quel lavoro, e non provò imbarazzo neppure quando, due ore più tardi, si sedette a pranzare anche lui, in un tavolino un po' appartato, con altri camerieri.
Qualcuno gli domandò se era un nuovo assunto, e lui dovette rispondere che no, non era assunto per niente.
Il direttore rimase perplesso: lo aveva visto indaffarato per tutta la sera, e non sapeva come comportarsi. Alla fine gli offrì una lauta mancia e lo congedò.
Il tricheco andò a dormire su una carrozza in sosta.

“Chi sei?” domandò una vocina dal fondo della carrozza buia.
“Sono un cameriere”, rispose il tricheco.
Una risatella argentina risuonò nell'oscurità: “Sei venuto a portarmi la cena? Sarebbe ora, sono tre giorni che non mangio, e lo stomaco mi sta diventando lungo lungo... Ma no, che non sei un cameriere! Mi sembri piuttosto un tricheco vagabondo. Che ci fai su questo treno? Quando passerà il guardiano ti butterà fuori: non puoi certo nasconderti sotto i sedili come faccio io!”
Il tricheco non vedeva niente. Non capiva chi avesse parlato; si distese meglio che poté cercando di prendere sonno.
Un raggio di luna entrò dal finestrino e accese riflessi dorati in due occhietti spauriti, sbarrati nell'oscurità sotto al sedile. “Vieni, mettiti anche tu qui sopra. I guardiani non importunano i trichechi!”

La panca era dura e troppo corta, ma il tricheco dormì saporitamente.
Alle prime luci uno scossone lo destò: il locomotore aveva prelevato la carrozza per agganciarla ad un treno in formazione.
Tra poco lo avrebbero costretto a scendere. Aprì gli occhi, e si vide davanti un cagnetto piccolo piccolo, una specie di bassotto, ma con le gambe un po' più lunghe e il pelo folto e arruffato.
“Chi sei?” domandò spontaneamente.
“Sono Otto, e tu? E' vero che non sei un cameriere?”
“No, hai ragione, io sono uno scrittore.”
“Forse vorresti essere uno scrittore!” ribatté Otto, guardandolo fisso negli occhi. Il tricheco tagliò corto: “Vieni, andiamo a fare colazione.”
Scesero dal treno e andarono al bar della stazione.
Otto scodinzolava in mezzo alla gente; frugava per terra cercando le briciole che gli avventori, sempre frettolosi, lasciavano cadere.
“Eccomi al punto di partenza”, pensava il tricheco, “e per di più piove!”
Infatti il tempo era cambiato ed una pioggia sottile ed insistente rendeva uggiosa quella triste mattinata di fine ottobre.
La cittadina, che il giorno prima era parsa così allegra e luminosa, era ora cupa, fredda, triste sotto la pioggia.
Veniva voglia di rintanarsi in una di quelle belle case, dall'aspetto così accogliente, dove senza dubbio era già acceso un caminetto scoppiettante, e passare la mattinata a guardare le fiamme vivide che si sprigionano dalla legna ben secca, il formarsi dei tizzoni, il consumarsi delle braci che si nascondono piano piano sotto la cenere.
Leggere un buon libro accanto al fuoco, attendendo l'ora del desinare.
Ecco: un buon libro. Bisogna scrivere un buon libro.
“Io un'idea ce l'avrei” esclamò Otto, che gli aveva letto nel pensiero. “Perché non racconti la "tua" storia fin dall'inizio?”
Poteva essere una buona idea. Nessuno conosceva la storia del tricheco: da dove veniva, chi era, cosa faceva e perché si trovava, due giorni prima, a Monaco di Baviera. “In viaggio d'affari” qualcuno avrebbe detto. Ma che tipo di affari? E poi, quelli che vanno in "viaggio d'affari", hanno sempre la loro brava carta di credito in tasca, mangiano al ristorante e dormono negli alberghi.
Cosa ci faceva un tricheco vagabondo e squattrinato alla festa di ottobre?

Davanti alla stazione si apriva un ampio piazzale, circondato da portici, che continuavano lungo la via che conduceva nel centro della città.
Il tricheco si avviò lentamente lungo i portici, soffermandosi ad ammirare le vetrine dei negozi, che esponevano merce via via sempre più raffinata ed elegante di mano in mano che ci si avvicinava al centro.
Dai negozi di chincaglierie, dai magazzini di abbigliamento, si passava piano piano fino agli orefici più ricercati e alle più esclusive sartorie.
Anche il ristorante della stazione non aveva nulla a che vedere con l'elegantissimo locale davanti al quale si trovava ora.
In fondo in fondo si mangiavano le stesse cose, ma che nomi roboanti e francesi avevano saputo trovare per una fettina di vitello con due patate al forno!
Camerieri in doppiopetto nero si aggiravano per tavoli ricoperti da preziose tovaglie ricamate. Posate d'argento stile impero, vasellame della porcellana più fine e pregiata, cascate di fiori aristocratici, come calle, amarilli e orchidee, disposti con sapiente maestria, ornavano la sala, divisa in discreti séparé a due, quattro o sei posti.
Erano esclusi i colori violenti; dominavano la tinta avorio e i legni scuri, come mogano e noce. Gli argenti, disposti un po' ovunque, riflettevano una luce ambrata, delicata, diffusa.
Una musica morbida, un po' romantica, si diffondeva da piccoli altoparlanti nascosti dietro la tappezzeria.
Chi sa quali storie meravigliose si sarebbero potute inventare in quell'ambiente!
Il tricheco entrò e chiese del direttore.
“Sono uno scrittore”, si presentò, “e vorrei poter lavorare qui. Non avete bisogno di un cameriere?”
Ma non avevano nessun bisogno di un cameriere, tanto meno tricheco e scrittore.

Il tricheco entrò in una grande libreria. Non sapendo cosa scegliere, si aggirava fra gli scaffali colmi di libri, osservava le copertine elegantemente illustrate; ma non si lasciava trarre in inganno: sapeva bene che spesso quanto più è vistosa la copertina, tanto più è squallido il contenuto.
Non è facile per un grosso tricheco muoversi negli stretti corridoi di una libreria, così, senza volerlo, urtò una ragazza.
Doveva essere una studentessa di liceo, o dell'università. Era vestita sobriamente, con un grazioso tailleur color carta da zucchero e una camicetta color panna. Portava i capelli, di colore biondo intenso con riflessi dorati, raccolti in una breve treccia annodata sopra la nuca.
Il tricheco non sapeva come scusarsi. La ragazza si era chinata e aveva già raccolto con mossa agile i libri che le erano caduti, lasciando intuire, nei rapidi movimenti, la grazia del suo corpo elegante e flessuoso.
“Scusi signorina...” e due occhioni verdi, sereni ed indulgenti lo avevano fissato per un breve istante, dando risalto ad un visetto ovale, dal nasino un po' schiacciato, dolce, affettuoso.
“Le ragazze, specialmente quelle carine, sono sempre un buon argomento per un romanzo” aveva subito pensato il tricheco...
“Scusi, signorina, potrebbe raccontarmi la sua storia?”
Ma la ragazza non aveva nessuna storia da raccontare. Aveva sorriso, mostrando una candida arcata di denti perfetti, e si era allontanata senza pronunciare una parola.
“Forse non conosce la nostra lingua”, pensò il tricheco, e rimase a lungo a fantasticare su quella graziosa ragazza straniera e al dramma della sua delicata esistenza nell'ambiente duro ed ostile di una città sconosciuta.

“Dove vuole andare?”
Il tricheco, seguendo tutti i portici per ripararsi dalla pioggia, era tornato alla stazione e si era messo in coda allo sportello dei biglietti. Ma questa domanda indiscreta lo coglieva impreparato.
“In Alaska”, pensava: “Io vorrei andare in Alaska con la grossa tedesca di Monaco”. Ma non era la risposta giusta.
Così acquistò un biglietto per Monaco e si mise ad aspettare il primo treno.
Passeggiava avanti e indietro lungo la pensilina; la stazione era silenziosa, come di notte; si sentiva solo crosciare la pioggia, e un rombo continuo, lontano: il pulsare della città che si trasmette in una vibrazione costante, cupa e profonda, che penetra nei fabbricati, risale dalle fondamenta, invade ogni angolo e ogni struttura.
Otto era ricomparso, e lo seguiva con fare svogliato, soffermandosi ad annusare qua e là, ai piedi delle panchine deserte, tutto ciò che trovava lungo il suo percorso.
Quando il treno arrivò, salirono insieme.

Mentre dormicchiava, cullato dal rullio del treno, il tricheco cercava di mettere insieme gli elementi della sua storia, che gli venivano in mente in modo disordinato: il ristorante sotto i portici in centro, la notte passata sul vagone in sosta, la fuga in Alaska, gli occhioni verdi e sorridenti della ragazza in libreria e gli occhietti neri e luccicanti di Otto, che lo stava fissando proprio in quel momento.
“La vita è fatta così”, esclamò il cagnetto: “una serie sconclusionata di incontri, un susseguirsi di piccole avventure quotidiane, un alternarsi ritmico di fame e di sonno.”
“C'è chi corre affannosamente e chi si attarda a guardare le cose, a cercare nel profondo della propria anima la ragione di esistere.”
“E tutti ci troviamo alla fine allo stesso punto, immersi in un mondo che ci ospita ma non ci appartiene; ed è inutile cercare di afferrarlo, di stringerlo e concentrarlo per farlo entrare nelle nostre tasche. Per questo gli animali non hanno tasche.”
“Non tutti però”, proseguì il tricheco: “Mamma cangura ha la sua tasca, e ci tiene quello che ha di più caro al mondo! Dovremmo imparare da lei a conservare solo le cose che hanno veramente valore.”

Giunsero a Monaco stanchi ed affamati. Otto andò al ristorante della stazione a raccogliere le briciole sotto ai tavoli, e il tricheco tornò all'albergo dove due sere prima aveva lasciato la valigia con le sue carte di credito, e riprese il suo viaggio di affari, senza più illudersi di poter essere vagabondo, squattrinato e felice.

di Giacomo MANZONI
[Modificato da Artevizzari 13/10/2007 08:14]




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Il Tricheco ... illustrazioni dell'autore




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IL COCCODRILLO:


Un giorno un grosso coccodrillo decise di fare il giro del mondo. Lasciò il fiume dove aveva vissuto fino ad allora e, non avendo i soldi per comperare il biglietto del treno o della corriera, si mise sul bordo della strada a fare l'autostop.
Ma la gente che passava aveva paura del coccodrillo, e nessuno si fermava, finché passò un signore che aveva una fabbrica di borsette. Questo signore quando vide quel coccodrillo così grande con tutta la sua pelle addosso, pensò di prenderlo per farne borsette. Fermò il suo camion e, con un gran sorriso, domandò:
“Buongiorno, signor coccodrillo, dove desidera andare?”




Il coccodrillo ricambiò il saluto e rispose:
“Vorrei fare il giro del mondo.”
“Oh, che fortuna!” ribatté il signore del camion, “Vado proprio da quella parte!”
Il coccodrillo salì sul cassone e il camion si avviò.
Ma quando giunsero nei pressi della fabbrica di borsette, e il coccodrillo vide tutte le pelli stese ad asciugare al sole, si spaventò moltissimo; saltò giù dal camion e si buttò in un canale.
Il padrone della fabbrica ci rimase male quando non lo trovò più nel camion, ma il coccodrillo l'aveva scampate bella!

Il coccodrillo, in fondo al canale, pensava: “Non c'è più da fidarsi di nessuno! E' troppo pericoloso fare l'autostop per un povero coccodrillo che viaggia da solo. Sarà meglio che vada a piedi.”
E così fece: uscì dal canale e, per sentieri e viottoli, arrivò fino al paese più vicino.
Era giorno di fiera, e in paese c'era un gran mercato.
C'era molta confusione: la gente andava e veniva e i venditori gridavano per presentare la loro merce.
Il coccodrillo si avvicinò ad un bancone su cui erano esposti dei buonissimi canditi, di cui era molto goloso e, molto garbatamente, con un grande sorriso, chiese al negoziante, che era una signora un po' grassa, se poteva regalargli qualche candito, perché non aveva i soldi per pagare.





La signora, quando vide tutti i denti aguzzi del coccodrillo, si spaventò moltissimo, e gli diede tutti i canditi che voleva. Ma il coccodrillo, che era molto educato, ne prese solo due e proseguì il suo viaggio.

Cammina, cammina, arrivò in una grande città.
Il coccodrillo era molto stanco e aveva male ai piedi per cui, quando vide della gente che faceva la fila per salire sul tram, si mise in coda con gli altri. Ma il controllore gli disse che, se non aveva il biglietto, non poteva salire.
Il coccodrillo andò allora al chiosco dove si vendono i biglietti e, molto garbatamente, con un grande sorriso, chiese se, per favore, poteva avere un biglietto dell'autobus, gratis perché non aveva i soldi per pagare.
Il bigliettaio, vedendo il sorriso del coccodrillo con tutti quei denti acuminati, terrorizzato gli diede più di cento biglietti. Allora il coccodrillo incominciò a girare per tutta la città avanti e indietro con il tram.



Ma la gente incominciò a protestare:
“Non vogliamo i coccodrilli sul tram!”
“I coccodrilli mordono i bambini!”
Il che non era vero perché il coccodrillo era molto educato e non aveva mai morso nessun bambino.
“I coccodrilli puzzano!”
Questo era un po' più vero.
“I coccodrilli occupano molto posto e non ne resta più abbastanza per noi!”
Questo era verissimo, perché il coccodrillo era lungo più di cinque metri e da solo riempiva mezzo tram.
L'azienda tranviaria decise di istituire un servizio apposito, riservato ai coccodrilli. Ma intanto il coccodrillo aveva finito i suoi biglietti e se ne era andato.

Lasciata la città il coccodrillo camminò a lungo sotto il sole, finché giunse accaldato e stanco sulle rive di un grande lago. Attratto dalla freschezza delle acque, si tuffò e si mise a nuotare.
Quando fu in mezzo al lago vide passare un grosso battello, tutto pieno di passeggeri. Allora, essendo un coccodrillo molto socievole ed educato, si sporse dall'acqua e, tutto sorridente, si mise a fare segni di saluto con le zampe.
Ma i passeggeri, vedendo quella grande bocca tutta piena di denti acuminati, si spaventarono moltissimo, e pensarono che si trattasse di un mostro marino o di un drago. Il capitano con un megafono incominciò a gridare:
“Tutti ai loro posti! Attenzione sul ponte: c'è un mostro nel lago!”
Il coccodrillo non pensava proprio di essere stato scambiato per un mostro e, sentendo gridare "c'è un mostro nel lago", fu preso da una grande paura e cercò di arrampicarsi sulla nave.
Ma le fiancate della nave erano lisce, e per di più i marinai, con remi e bastoni, gli impedivano di salire.
Il coccodrillo dovette rinunciare; si rituffò nell'acqua e, nuotando più in fretta che poteva, andò a rifugiarsi su una isoletta che per fortuna non era troppo distante e, sfinito di stanchezza e di paura, si mise a dormire.

Quando si svegliò vide che due ragazzi erano venuti con una barchetta a remi sull'isoletta, e si erano messi a riposare sulla spiaggia, all'ombra.
Il coccodrillo si avvicinò tutto sorridente, per domandare molto garbatamente se, per favore, potevano portarlo con la barchetta fino alla riva, perché aveva paura del mostro marino.
Ma i ragazzi, terrorizzati, scapparono a rifugiarsi sull'albero più alto che c'era sull'isola. Il coccodrillo allora andò sulla barchetta e, aspettando che i ragazzi scendessero dall'albero, si acciambellò sul fondo e si mise a dormire.
I ragazzi non osavano avvicinarsi alla barchetta e, quando il coccodrillo si fu addormentato, fuggirono a nuoto e raggiunsero presto la riva. Cosicché il coccodrillo, non trovando più i ragazzi sull'isola, poté tornare a riva con la barchetta a remi.
“Anche nei laghi ci sono molti pericoli”, pensava il coccodrillo, “bisogna che mi guadagni dei soldi per poter viaggiare in treno.”
Poco lontano si imbatté in un circo dove lavoravano molti animali. Si informò da un leone, che sembrava una bestia molto perbene, e seppe che il trattamento era familiare, con cibo sano ed abbondante, la paga era discreta, ma il lavoro piuttosto pesante.
“Pensa”, diceva il leone, “che mi tocca far rotolare con le zampe una palla, ballare a suon di musica, saltare dentro a dei cerchi infuocati e, quel che è peggio, prendere in bocca la testa del domatore!”
Così il coccodrillo si presentò al padrone del circo il quale, vedendo che era una bestia molto educata, socievole e disciplinata, lo assunse in prova e lo consegnò al domatore.

Il domatore ci sapeva fare con gli animali: insegnava loro un mucchio di esercizi e li trattava con pazienza e con rispetto anche se, delle volte, sulla pista del circo si innervosiva e faceva schioccare la frusta con pericolo di far loro del male.
Il coccodrillo aveva imparato a fare dei tuffi con evoluzione: si avvolgeva a ciambella e rotolava nell'acqua come una ruota; inoltre si prestava per gli scherzi dei clown che si sedevano sulla sua schiena come su un tronco di legno.
Così, lavorando per il circo, girava per il mondo e aveva già messo da parte qualche soldo.
Il domatore gli aveva raccomandato:
“Non sorridere, perché con i tuoi denti spaventi gli spettatori.”
Ma il coccodrillo alla fine di ogni esibizione non poteva fare a meno di sorridere alla folla che applaudiva, e prendeva un aspetto così feroce che tutti si mettevano a tremare di paura.
Il domatore pensò allora di sfruttare l'aspetto feroce del coccodrillo con l'esercizio che faceva già con il leone, e cercò di insegnargli a prendere in bocca la sua testa.
Ma la prima volta che fecero la prova, i capelli, che il domatore portava lunghi e fluenti, fecero solletico in gola al coccodrillo che, senza volerlo, chiuse di colpo la bocca e ingoiò la testa del domatore.

Immaginatevi il dispiacere del coccodrillo nel vedere il domatore, a cui oramai si era teneramente affezionato, completamente morto e senza testa! Si mise a piangere dirottamente, ma la gente non voleva credere che lui non l'avesse fatto apposta, e dicevano tutti che erano lacrime di coccodrillo.
Il padrone del circo si convinse che era pericoloso, e quindi decise di mandarlo alla fabbrica di borsette perché gli facessero la pelle.
Ma quando fu là il coccodrillo disse che era amico del padrone della fabbrica e che si erano conosciuti quando faceva l'autostop. Lo condussero dal padrone e il coccodrillo, riconoscendo quel signore che gli aveva dato un passaggio tanti mesi prima, gli fece un sorriso tanto largo che fece vedere tutti i denti, anche gli ultimi in fondo in fondo, quasi vicino alle orecchie.
Tutti rabbrividirono di paura e i guardiani allentarono le corde con cui avevano legato il coccodrillo, che subito ne approfittò per liberarsi e correre a gettarsi in quel canale che già una volta era stato la sua salvezza.
E appena poté ritornò al fiume da cui era partito all'inizio della sua avventura e non se ne allontanò mai più.






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L' IPPOPOTAMO

C'era un ricco signore alsaziano che aveva un ippopotamo.
L'Alsazia, come tutti sanno, è una regione della Francia, al confine con la grande Germania, abitata da gente laboriosa che parla con un forte accento tedesco.
L'ippopotamo invece proveniva dalla valle del Nilo, era un animale erbivoro, pacifico e tranquillo, ma stentava ad abituarsi al clima freddo del nord ed era molto soggetto a tossi e raffreddori.
Quando usciva a passeggio con il suo padrone che lo teneva al guinzaglio, doveva anche indossare una grande museruola, perché, quando sbadigliava, spalancava una boccaccia enorme con delle zanne così grosse che facevano paura alla gente.
Quando poi starnutiva doveva mettersi davanti al naso un fazzolettone grande come un lenzuolo.

Un giorno d'autunno, una di quelle pigre giornate non ancora fredde, ma tristi e uggiose, con il cielo nuvoloso e le strade che si vanno coprendo con le prime foglie che cadono dagli alberi, l'ippopotamo passeggiava per i giardini con il suo padrone. Già sentiva nell'aria l'inverno e, mentre guardava i cespugli pieni di bacche rosse, sognava il tepore del Nilo e fu colto da una nostalgia tanto struggente del paese natale che si distese per terra piangendo disperatamente.




Gli ippopotami hanno fama di bestie serene, socievoli e gaudenti, e il suo padrone, vedendolo in quello stato, pensò che si sentisse male e andò a chiamare d'urgenza un camion con la gru per portarlo dal veterinario.
L'ippopotamo, rimasto solo, fu preso da uno sconforto ancora più profondo, e decise di fuggire e di partire immediatamente per tornare al suo paese.

Decisione coraggiosa, ma non facile da attuare.
L'Alsazia dista dall'Africa quasi duemila chilometri, e ci sono in mezzo mari e montagne per cui, per prima cosa, l'ippopotamo pensò di prendere l'aereo.
Andò all’aeroporto (e già questo non fu facile, perché non passava dalla porta dell'autobus e dovette andare a piedi) e quando fu là vide un signore tutto nero vestito tutto di bianco. Avendo saputo che andava al Cairo, gli chiese se poteva gentilmente prenderlo con sé come bagaglio appresso.
Le trattative furono assai difficoltose, perché quel signore parlava arabo e faceva fatica a capire l'ippopotamo che parlava francese con un forte accento del nord, ma si sarebbero concluse felicemente se non fosse stato per gravi difficoltà burocratiche. Infatti il regolamento delle compagnie aeree non prevede il trasporto di ippopotami né in prima classe né in classe turistica.
Con una interpretazione piuttosto libera della norma si poteva considerarlo alla stregua di un grosso baule, cioè di un contenitore, che poteva essere di pelle naturale, contenente materiale non pericoloso (cioè non esplosivo, infiammabile, tossico o radioattivo) che poteva viaggiare nel bagagliaio alla tariffa di quarantotto franchi francesi alla libbra.
Ma quando allo sportello dei biglietti l'impiegato seppe che l'ippopotamo pesava più di quindici quintali, ne venne fuori una cifra talmente spropositata che quel signore fu costretto a rinunciare.

L'ippopotamo guardava le rondini, le ultime rondini che volavano verso Sud; guardava le cicogne che si sollevavano in lenti giri per planare poi con volo calmo e maestoso, e così, piano piano, con il naso all'aria, si trovò a camminare nella giusta direzione.
Presto venne sera. Il cielo durante la giornata si era rasserenato e, mentre ad occidente si andavano spegnendo gli ultimi bagliori infuocati del tramonto, verso oriente si accendevano ad una ad una le stelle, incominciando dalle più luminose. L'ippopotamo si trovava ora in aperta campagna, vicino ad una grande fattoria. Si avvicinò nella semioscurità ad un gran mucchio di fieno e ne mangiò a sazietà. Si stese poi nella paglia e, cullato dal monotono brusìo delle mucche che ruminavano nel recinto vicino, si addormentò serenamente.

Si risvegliò alle prime luci dell'alba. Un galletto impertinente, tutto cresta e coda, gli era saltato sulla testa e gridava "chicchricchì" con tutto il fiato che aveva, proprio in mezzo alle sue orecchie.
L'ippopotamo spalancò la bocca in un enorme sbadiglio, che fece fuggire terrorizzato il galletto, e si guardò intorno. Ora si sentiva proprio bene: il tranquillo riposo nella pace della campagna e l'aria frizzante della mattina, profumata di fiori e di fieno, lo avevano messo di buon umore.
Si mosse barcollando sulle sue tozze zampe e si avvicinò ad un recinto dove erano raccolte alcune famiglie di maiali.
Mamma scrofa, che si alza sempre per prima al canto del gallo e stava già preparando la colazione per i suoi porcellini, non si lasciò impressionare dalle ragguardevoli dimensioni del nuovo venuto e lo salutò con un cordiale grugnito. Era sempre stata attratta dagli animali corpulenti e massicci, e quell'essere strano dalla pelle grigiastra, con gli occhietti un po' da ranocchio e le orecchiette a sventola, le ispirava una misteriosa fiducia e confidenza.
Così lo invitò a fare colazione. Quel giorno c'era un pastone di ghiande veramente succulento e, mentre mangiava, l'ippopotamo raccontava dei meravigliosi paesi da cui proveniva, pieni di luce e di sole.
I maialetti e mamma scrofa, che non si erano mai allontanati in vita loro dal porcile, sgranavano gli occhi meravigliati alle fantastiche descrizioni dell'immenso fiume Nilo, dei palmizi carichi di datteri dolcissimi, dei banani pieni di frutti maturi. Sembrava loro il paradiso terrestre, così pregarono l'ippopotamo di fermarsi qualche giorno per raccontare loro altre storie.
Si avvicinava la stagione in cui i porcili si spopolano e i salumifici si riempiono di favolose leccornie, e mamma scrofa non sapeva sopportare la malinconia delle lunghe serate invernali in solitudine. Così, un giorno dopo l'altro, l'ippopotamo si fermò fino a primavera.

Ma quando le giornate incominciarono a farsi più tiepide e più lunghe, rinfrancato e ristorato dal lungo ozio invernale nella serena atmosfera della fattoria, l'ippopotamo ripartì verso il Sud.
Camminò giorni e giorni, per boschi e per prati, per valli e per monti. Attraversò villaggi e paesi, cercando di non farsi notare, per non disturbare, e intanto sugli alberi si aprivano le gemme, si sviluppavano le foglie, cadevano i fiori della primavera e cominciavano a maturare i primi frutti.
Cammina cammina, arrivò ad un fiume dove l'acqua scorreva limpida e placida fra le rive verdeggianti.
L'ippopotamo si immerse nell'acqua gelida e si lasciò trascinare dalla lenta corrente.
Di mano in mano che procedeva nel suo corso, canali, torrenti, rivoli e ruscelletti vi apportavano la loro acqua, ed il fiume si faceva più largo e profondo.
Attraversava paesi, passava sotto ponti sempre più lunghi e monumentali; ora lambiva i ruderi di antiche costruzioni e ora riceveva schiumosi scarichi industriali.
Dopo solo tre giorni che l'ippopotamo scendeva lungo la corrente, il fiume era talmente largo e maestoso che ricordava vagamente il Nilo. Era così grande e tranquillo da poterci andare con le barche, e l'ippopotamo, fattosi più audace e burlone per il benessere che trovava in quell'acqua ormai non più gelida, si divertiva a spaventare la gente non abituata a vedere quel genere di animale nei fiumi della Francia meridionale.
Infatti, nel suo lungo viaggio, l'ippopotamo era arrivato fino in Provenza. Il fiume si era fatto placido e melmoso e si disperdeva in tanti rami, separati da isole sabbiose sempre più grandi. Il paesaggio era cambiato: al posto delle rive verdeggianti si vedevano solo lunghe dune di sabbia e canneti popolati da uccelli palustri.
É lì che il fiume si getta nel mare. L'ippopotamo non aveva mai conosciuto una simile quantità di acqua, tutta salata; si distese presso il bagnasciuga e rimase a lungo incantato a guardare le onde che si inseguivano leggere sul fondale basso.
Poco lontano alcuni trampolieri frugavano col becco alla ricerca di qualche mollusco e, siccome avevano l'aspetto di gente colta che ha molto viaggiato, l'ippopotamo si avvicinò e chiese garbatamente in quale direzione si trovava l'Africa.
I trampolieri furono assai felici di rispondere; anzi uno, che era particolarmente loquace, gli raccontò che veniva tutti gli anni a passare qualche settimana d'estate in Francia, ma che normalmente viveva in Africa, subito al di là del mare, e che era passato proprio pochi giorni prima lungo il Nilo dove aveva visto molti ippopotami.
Il nostro amico, al sentir parlare dei suoi cugini che erano subito al di là del mare, fu preso da grande contentezza e, senza pensarci due volte, si avviò, camminando sul fondo, diritto verso il largo, con le onde che gli facevano il solletico sotto il collo.
Pian piano l'acqua si faceva più profonda, ma l'ippopotamo, che è un buon nuotatore, non si perse d'animo e si mise a nuotare con energia, anche se l'acqua salata gli bruciava un po' gli occhi.

Nuotò per diverse ore. Da un pezzo ormai non si vedeva più la riva, ma solo mare e cielo: un cielo estivo scintillante ma mutevole.
Infatti, dopo la calda mattinata di sole, si erano rapidamente raccolti verso occidente dei densi nuvoloni carichi di pioggia. Ben presto il vento si era levato impetuoso e il mare da calmo si era fatto mosso, da mosso era diventato agitato e da agitato burrascoso.
In breve tempo il povero ippopotamo si era trovato in mezzo ad un terribile temporale. Delle onde enormi lo sbattevano su e giù senza pietà; dal cielo plumbeo si erano scaricati rovesci tali di pioggia da non riuscire più a capire se il mare stava sopra o sotto. Anche lo stomaco dell'ippopotamo era tutto sottosopra: stava malissimo e per la prima volta si pentì della sua decisione e rimpianse le tiepide primavere della pianura alsaziana.
Là, perso tra cielo e mare, tra le onde che lo sballottavano, facendogli ingurgitare enormi quantità di acqua salata mentre i fulmini si scaricavano vicino, con lampi e tuoni terrificanti, pur essendo un ottimo nuotatore, pensava proprio che non se la sarebbe cavata.
Ma, come dice un proverbio poco noto, "la fortuna aiuta gli ippopotami" e così, dopo qualche ora di martirio, un'onda più grossa delle altre lo depose incolume su un'immensa spiaggia sabbiosa dove, tiratosi all'asciutto, mezzo morto di paura ma senza ferite, si stese cercando di ricomporre i moti convulsi del suo stomaco.

Si era fatta notte e la spiaggia era deserta. Fra le nubi che si stavano diradando faceva capolino la luna piena, e sembrava che il mare ne sentisse l'abbraccio e si andasse calmando come un cucciolone alle carezze affettuose del padrone.
L'alba trovò tutto tranquillo; l'ippopotamo si era assopito e il mare si era fatto calmo.
In poche ore la spiaggia si riempì di ombrelloni e sedie a sdraio, e grasse signore con bambini si stesero sulle stuoie per esporre al sole schiene e cosce.
Così al suo risveglio l'ippopotamo si trovò immerso nel profumo delle creme solari e davanti al suo nasone un solerte marocchino con la sua esposizione di tappeti, orologi, occhiali e accendisigari, gli proponeva acquisti vantaggiosissimi.
La paura del mare era stata tanta, ma la nostalgia dell'Africa, che ora vedeva incarnata in quello sparuto ragazzo dalla pelle scura, divenne ancora più grande. Perciò chiese subito al marocchino se sapeva dirgli il mezzo più comodo per attraversare il mare. Il marocchino sapeva bene che il mare non si può attraversare a nuoto e gli spiegò che, per un individuo che per ragioni di peso ha difficoltà con i trasporti aerei, il mezzo più pratico, e forse l'unico, è la nave. Camminando lungo il mare verso oriente avrebbe senza dubbio trovato un grande porto pieno di navi.
Intanto si erano avvicinati altri marocchini interessati alla conversazione e si erano commossi, dimostrando molta solidarietà per le sventure del povero ippopotamo, tanto che uno di loro, che vendeva borse e borsette, dopo avere a lungo discusso con gli altri, parlando un incomprensibile dialetto arabo, si offrì di dargli un passaggio con il camion di un suo conoscente. Così dopo poche ore l'ippopotamo si trovò in viaggio verso una fabbrica di borsette.
Forse è destino degli animali che hanno una pelle pregiata fare prima o poi un viaggio del genere, ma la pelle dell'ippopotamo non è adatta alla concia e così, là giunto, dopo una breve ispezione, lo fecero scendere dal camion e gli indicarono la strada del porto.

L'ippopotamo aveva letto in un vecchio romanzo le avventure di un ragazzo che attraversava i mari imbarcandosi come mozzo sui velieri. Pensò di fare altrettanto e si avvicinò ad una nave diretta in Egitto. Ma venne a sapere che per fare il mozzo era necessario avere compiuto quattordici anni, avere il passaporto in regola, per i minorenni ci voleva l'autorizzazione di tutti e due i genitori, scritta su carta da bollo e con firma autenticata, per i maggiorenni bisognava avere assolto gli obblighi militari, ed infine era indispensabile essere iscritto nelle liste di collocamento e, possibilmente, ad un sindacato. Ma era inutile che l'ippopotamo espletasse tutte quelle formalità, perché non aveva il fisico adatto e nessuno lo avrebbe assunto.
Pensò allora di spedire se stesso in “porto assegnato”, ma anche qui le formalità erano tante e tali che dovette rinunciare: come procurarsi la lettera di imbarco, la dichiarazione fiscale del destinatario, il permesso di esportazione, la bolla di accompagnamento e i mille altri documenti necessari? Con documenti incerti e poco chiari avrebbe rischiato di finire su una nave di rifiuti e fare tre volte il giro del mondo per ritornare alla fine al punto di partenza.
Decise di imbarcarsi come clandestino. Ma come fare a salire su una nave senza farsi notare? Non se la sentiva proprio di arrampicarsi lungo le catene delle ancore come fanno i topolini!
Ma "la fortuna aiuta gli ippopotami" e così una sera fosca ed afosa, mentre passeggiava sconsolato per il porto, l'ippopotamo si avvide di una passerella incustodita; salì a bordo di una nave e la mattina seguente, prima che i marinai si accorgessero della sua presenza, era ormai in alto mare diretto a Napoli.
Il capitano era furioso; non sopportava di avere un clandestino a bordo; lo mise a far da sguattero, a pelar patate, a lavare il ponte: tutti mestieri che l'ippopotamo faceva con molto zelo, per sdebitarsi, ma con scarsissimo successo.
Per fortuna in pochi giorni furono a Napoli e l'ippopotamo fu consegnato alla polizia locale.

Giunto in questura, gli fecero capire che il reato commesso era molto grave e meritava anni di prigione. Infatti la compagnia di navigazione pretendeva il pagamento del biglietto per il suo viaggio.
Ma l'ippopotamo non aveva soldi.
Gli spiegarono che, se non aveva qualcuno di particolarmente influente che garantisse per lui, le cose si sarebbero messe molto male. L'ippopotamo era disperato, ma poi gli venne in mente che il suo vecchio padrone alsaziano doveva esser una persona importante: infatti a sentire quel nome altisonante mezzo tedesco e mezzo francese, i questurini lo liberarono subito, tanto più che non avrebbero potuto trattenerlo perché le prigioni erano piccole e piene di marioli di tutti i generi, e non c'era di certo posto per un animale così grosso.
A Napoli l'ippopotamo si sentì rinascere: il vento del Sud sembrava che portasse il profumo dell'Africa. Era ormai piena estate e il caldo torrido induceva tutti ad una torpida sonnolenza.
L'ippopotamo si crogiolava al sole delle spiagge, si bagnava nel mare non ancora del tutto inquinato, e i giorni passavano sereni. Il fatto di essere ormai vicino all'Africa gli dava una grande tranquillità e la serena fiducia che presto il suo viaggio si sarebbe felicemente concluso.
Indulgeva così alla pigrizia e rimandava di giorno in giorno ogni decisione, aspettando che gli captasse a tiro la buona occasione.
E la buona occasione si presentò improvvisa e inopinata sotto forma di un container diretto al Cairo, trovato semiaperto su una banchina. I containers sono dei grossi cassoni di acciaio dove le merci vengono stivate. Poi il container completo viene caricato sulla nave, o sul camion, o sul treno, o anche sull’aeroplano, e prosegue fino alla sua destinazione senza necessità di essere aperto, trasbordando con tutto il suo carico da un mezzo di trasporto all'altro. Così l'ippopotamo riuscì a intrufolarsi nel container e a nascondersi dietro a delle grosse casse. Il container fu chiuso ed imbarcato.

Povero ippopotamo! Questa fu la parte più penosa di tutto il suo peregrinare. Nel container faceva un caldo soffocante; non c'era altro da mangiare che casse e casse di spaghetti crudi, e niente da bere.
Quando finalmente dopo alcuni giorni e mille sballottamenti giunse al Cairo e poté tornare all'aperto, del grosso ippopotamo era restato poco più delle ossa. L'animale, infuriato, si mise a correre con tutte le energie che gli erano rimaste, e nessuno osava fermarlo, finché giunse ad un ponte sotto al quale scorreva un fiume enorme e si gettò nell'acqua fresca: era il Nilo.
L'ippopotamo dovette ancora risalire il Nilo per molte centinaia di chilometri, superando le rapide, aggirando dighe e sbarramenti, e il suo viaggio fu ancora lungo e faticoso, ma ormai si trovava nella sua Africa, nelle acque del suo Nilo e trovava facilmente il coraggio per vincere tutte le difficoltà. Arrivò così, dopo tanto tempo, al paese degli ippopotami, dove era nato.
E ancora oggi, quando racconta la sua avventura, prova un poco di nostalgia per il suo ricco padrone alsaziano che gli aveva voluto tanto bene e per quegli autunni freddi e brumosi che mai più rivedrà.






Flavia Vizzari - http://artevizzari.altervista.org

 
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